Raffreddare il pianeta con le alghe. Il progetto c'è, ma la strada è ancora lunga
La crisi climatica ha portato all'adozione di soluzioni come i carbon credits e la coltivazione di alghe per catturare CO2. Tuttavia, il progetto di utilizzare le alghe Kelp, pur promettente, solleva dubbi tra gli scienziati riguardo alla sua efficacia reale e agli impatti ecologici
La Terra ha un problema: si sta surriscaldando a causa del continuo aumento di anidride carbonica (CO2) immessa nell’atmosfera come sottoprodotto delle attività dei (cosiddetti) sapiens che vivono sul pianeta: industrie, trasporti, riscaldamento, allevamenti e via discorrendo. Ma più CO2 nell’atmosfera vuol dire più effetto serra e quindi temperature medie più alte con tutte le conseguenze (spesso disastrose) che ne derivano, dall’aumento della desertificazione alla fusione dei ghiacci polari, dalla perdita di biodiversità alle migrazioni climatiche. La soluzione sarebbe ridurre le nuove immissioni ed eliminare l’eccesso di anidride carbonica dall’atmosfera. Cosa più facile a dirsi che a farsi e siccome non ne sono capaci, quegli stessi sapiens si sono inventati una scappatoia: i carbon credits.
I carbon credits sono, essenzialmente, permessi che consentono di emettere una certa quantità di anidride carbonica (o altri gas serra), che possono essere comprati e venduti sul mercato.
È un modo di affrontare il cambiamento climatico attraverso un’operazione di ingegneria finanziaria con la quale si cerca di dare un prezzo alle emissioni di oggi per l’impatto che avranno in futuro sul clima del pianeta. In altre parole, si compra e si vende il diritto a inquinare l’atmosfera e come in tutti i mercati, se c’è chi compra questi carbon credits (gli inquinatori), c’è anche chi li vende e cioè tutti quei soggetti che con le loro attività sottraggono anidride carbonica o ne immettono meno di quanta potrebbero. Nello scenario mondiale, l’Unione Europea è il primo mercato del carbonio al mondo e rimane tra i più grandi a livello globale. Da più parti, tuttavia, questo sistema è accusato di essere un modo ipocrita di affrontare la più grande minaccia per l’umanità, la crisi climatica e una delle critiche principali è che il costo ambientale futuro di una tonnellata di anidride carbonica è molto difficile da quantificare, se non del tutto impossibile.
Ciononostante, il mercato dei carbon credits è in costante aumento dal 2015, anche se è praticamente impossibile stabilire se vi sia stato un reale effetto sull’ambiente dato che, secondo la Banca mondiale, le compensazioni di carbonio hanno evitato solo 352 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti nel 2021.
Ma tant’è, questo è lo stato delle cose e di questo meccanismo dei carbon credits bisogna tenere conto quando si guarda a certe ricerche scientifiche che tentano di trovare soluzioni ‘alternative’ al problema delle emissioni di anidride carbonica. È il caso del progetto che si sta svolgendo nelle acque del canale di Santa Barbara in California: coltivare alghe per combattere il cambiamento climatico. L’idea (che ha generato entusiasmo tra imprenditori, filantropi e anche alcuni scienziati) nasce dalle caratteristiche delle alghe giganti Kelp (Macrocystis pyrifera) che crescono nelle acque costiere poco profonde non solo della California, ma di quasi un terzo delle coste mondiali, estendendosi dalle regioni polari fino a quelle subtropicali.
Queste alghe giganti crescono velocemente e assorbono grandi quantità di carbonio, tanto da rivaleggiare con le foreste pluviali tropicali per la quantità di biomassa che riescono a produrre per chilometro quadrato. In California possono passare da spore microscopiche a rami lunghi decine di metri nel giro di pochi mesi, con foglie simili a lame color ambra e grandi quanto il braccio di un adulto.
Le aziende che vendono carbon credits guardano, dunque, con grande interesse a queste alghe e immaginano di realizzare grandi fattorie galleggianti nell’oceano aperto, dove farle crescere velocemente e assorbire grandi quantità di CO2 per poi affondarle a migliaia di metri sui fondali oceanici, seppellendo con esse il carbonio catturato. In questo modo si genererebbero altri carbon credits da vendere.
Almeno queste sarebbero le intenzioni. Nella realtà, però, la faccenda è molto più complicata perché l’idea, per quanto apparentemente semplice, è controversa e piena di punti da chiarire. Tra le questioni essenziali che non hanno ancora una risposta ci sono domande del tipo: quanto carbonio potrebbero effettivamente catturare le alghe? Quali potenziali effetti ecologici potrebbe avere la loro coltivazione massiva? E queste alghe costiere riuscirebbero a prosperare nell’oceano aperto? Sono questi alcuni dei motivi che hanno portato un gruppo di scienziati a chiedere una moratoria su questa pratica. Dall’altra parte, i sostenitori delle alghe per catturare la CO2 fanno il paragone con gli alberi a crescita rapida che si piantano sulla terraferma per assorbire il carbonio. Nel caso degli alberi, però, l’assorbimento avviene direttamente dall’aria e la CO2 viene convertita in legno, foglie e radici così, se gli alberi fossero sradicati e portati sul fondo del mare, la maggior parte del carbonio resterebbe intrappolato con loro. Ma con le alghe il meccanismo è diverso e il risultato non è così sicuro. A differenza degli alberi, infatti, le alghe estraggono il carbonio dall’acqua e non dall’aria, quindi, non influiscono direttamente sui livelli di CO2 nell’atmosfera. Il trasferimento del carbonio dall’aria all’acqua avviene solo quando l’acqua impoverita di carbonio dalle alghe si trova in prossimità della superficie dove interagisce con l’atmosfera, richiamando CO2 per creare nuovamente l’equilibrio tra aria e acqua. Tuttavia, non vi è alcuna garanzia che quest’acqua povera di carbonio resti in prossimità della superficie sufficientemente a lungo da consentire questo passaggio. A causa delle correnti, ad esempio, parte di essa potrebbe essere spinta in profondità e rimanervi per decenni o secoli, prima di tornare a contatto con l’aria esterna. Per giunta le alghe Kelp non sono un recipiente ermetico dal quale la CO2 non fuoriesce più una volta catturata. Al contrario, alcune ricerche hanno dimostrato che rilasciano quantità anche notevoli di carbonio mentre si decompongono. E questo vuol dire che prima che un’industria possa rivendicare i crediti per aver catturato carbonio con le alghe, quelle perdite dovrebbero essere quantificate con precisione e portate in conto. C’è, poi, la questione degli effetti che potrebbero avere grandi quantità di alghe ammassate sui fondali oceanici e gli esperti, al momento, non sono ancora in grado di valutarli. D’altra parte, stiamo parlando di dimensioni davvero enormi.
Per catturare 1 gigatonnellata di CO2 all’anno (un miliardo di tonnellate), cioè la quantità minima affinché la tecnologia di cattura del carbonio abbia effetti concreti, occorrerebbe ricoprire con fattorie di alghe un’area di oceano equivalente al Texas e al New Mexico e questo potrebbe significare affondare fino a 10 miliardi di tonnellate di alghe ogni anno.
David Siegel, lo scienziato della University California Santa Barbara che sta conducendo ricerche in proposito, definisce senza mezzi termini la portata di tale programma come insane cioè, letteralmente, folle. Ma se non bastassero questi elementi, ci sono anche altri problemi che inficiano l’efficacia dell’uso delle alghe Kelp per sottrarre CO2 dall’atmosfera. Nell’impianto di test realizzato nel canale di Santa Barbara in California al largo nell’oceano, si è riscontrato che queste alghe stentano a crescere. Il motivo sarebbe da ricercare nei livelli di ferro fino a un migliaio di volte inferiori a quelli necessari alla pianta, presenti nelle acque al largo rispetto a quelli sotto costa dove, invece, le alghe proliferano naturalmente. Non sembra avere migliori prospettive l’uso di un altro tipo di alga meno sensibile alla presenza di ferro quale il Sargasso.
In questo caso si stima che una percentuale compresa tra il 20% e il 100% del carbonio catturato potrebbe essere annullata dal fatto che il Sargasso, per crescere, priverebbe dei nutrienti necessari il fitoplancton il quale, a sua volta, cattura il carbonio, con il risultato che i due effetti finirebbero per annullarsi a vicenda. Inoltre, il Sargasso fornisce maggiori superfici per formare vaste colonie a quegli organismi dotati di guscio che reimmettono la CO2 nell’acqua mentre lo formano. Questo non vuol dire che il Sargasso non riesca a catturare una quantità utile di CO2 ma, come sottolineano alcuni ricercatori, riuscire a dimostrarlo sarebbe un incubo.
Gli esempi appena visti mostrano chiaramente che la questione della cattura della CO2 dagli oceani (o dall’atmosfera) è una faccenda terribilmente complessa che richiede molti studi e approfondimenti e che non può essere aggirata prendendo comode scorciatoie solo per favorire un mercato potenzialmente molto proficuo. Sulla questione abbiamo chiesto un parere ad Antonio Terlizzi, Professore Ordinario di Zoologia all’Università di Trieste e Direttore del Dipartimento di Ecologia Marina Integrata presso la Stazione Zoologica ‘Anton Dohrn’ di Napoli, che ha risposto senza esitazioni: “Non ho problemi a dire che, per quanto riguarda questo genere di soluzioni, lo scetticismo coinvolge anche me, al pari di tanti colleghi, perché non è così che si risolvono i problemi del cambiamento climatico. È un’ipocrisia mascherata da scienza. E poi è una visione troppo semplicistica perché l’equazione ‘più alghe = meno CO2’ non è detto che sia vera. Dobbiamo sempre tenere presente che in tutti questi tentativi è coinvolta la biodiversità che è un fenomeno molto più complesso di quello che possiamo credere o che vogliono farci credere persone interessate più al denaro che all’ambiente. Non è detto che soluzioni simili funzionino e, soprattutto, non sappiamo assolutamente quali conseguenze ambientali possono portare. Dunque, condivido le perplessità dei ricercatori coinvolti nella questione, alcuni dei quali conosco di fama o personalmente. E in ogni caso, per quanto ne sappia, nel Mediterraneo non c'è nessuna iniziativa simile, fortunatamente”.
Credits copertina: Peter Southwood, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons
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