Tecnologia al servizio del lavoro, l'intervista al premio Nobel Acemoglu
Considerato tra i dieci economisti più autorevoli e influenti a livello globale, Daron Acemoglu insegna al Massachusetts Institute of Technology dal 1993, con attività di ricerca che spaziano dalla macroeconomia all’economia del lavoro e dello sviluppo.
Nel suo ultimo saggio “Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità”, scritto con il collega Simon Johnson, Acemoglu pone a sé stesso e ai suoi lettori una domanda molto netta: intelligenza artificiale, automazione e più in generale tutte le innovazioni legate alla digitalizzazione porteranno davvero a una prosperità condivisa? Ne beneficeranno solo le big tech o anche lavoratori e cittadini? Per rispondere, l’economista ripercorre l’evoluzione della civiltà attraverso la lente delle piccole e grandi innovazioni, dimostrando che il progresso tecnologico non sempre si traduce in benessere diffuso. Perché ciò accada, è necessario indirizzarlo e guidarlo verso soluzioni che tengano conto delle persone e dei loro reali bisogni.
Professor Acemoglu, prima di tutto, una domanda personale. Lei è uno dei massimi esperti a livello globale nello studio dell’impatto delle nuove tecnologie sulla crescita economica e sulle diseguaglianze sociali. Cosa l’ha spinta a scegliere questo ambito di ricerca?
Mi ha sempre attratto l’economia. Era la strada per capire questioni come la povertà e lo sviluppo economico. Tale interesse mi ha portato a concentrarmi fin dall’inizio sullo studio delle istituzioni e della tecnologia. Molti dei miei primi lavori riguardavano proprio le istituzioni, così come gli effetti e le implicazioni della tecnologia. E poi da oltre dieci anni mi sono concentrato sull’automazione più avanzata, tra cui la robotica e l’intelligenza artificiale, che penso abbiano capacità sorprendenti ma creino importanti conseguenze a livello distributivo, compresi potenziali danni. Questo è il contesto che mi ha spinto a riflettere su come utilizzare al meglio l’IA.
Leggendo il suo ultimo libro, si deduce che il concetto di potere gioca un ruolo cruciale nella comprensione della tecnologia. Si può affermare che la tecnologia sia de facto una questione di potere?
In una certa misura è corretto. In effetti, nel libro in apertura vengono citati Francis Bacon e H. G. Wells. Ed è esattamente partendo dall’analisi di questi due punti di vista che troviamo l’elemento di raccordo tra potere e tecnologia. Francis Bacon pensava che la tecnologia e la scienza fossero al servizio dell’umanità, controllando la natura in modo piuttosto benigno, mentre H. G. Wells più di cento anni fa notò che spesso usiamo la tecnologia per dominare altri esseri umani, non solo la natura, e iniziò a speculare su alcune delle possibili implicazioni di tale approccio. Quindi, penso che ovviamente la realtà abbia elementi di entrambi, ma la prospettiva di H. G. Wells è importante.
Considerando l’intelligenza artificiale e il suo impatto sul lavoro e sulla società in generale, lo studio della storia dell’innovazione può aiutarci oggi a capire meglio cosa accade quando si introducono nuove tecnologie?
Sì. Ed è questo il motivo per cui abbiamo scritto il libro. Gran parte della mia ricerca riguarda il presente, ma una parte di essa e molto del mio pensiero si basano su eventi storici. Non solo possiamo imparare dal passato. È più corretto dire che dobbiamo imparare dal passato. Tuttavia, è bene fare attenzione alle interpretazioni errate della storia. Per esempio, mi è capitato di parlare degli impatti che l’automazione e l’intelligenza artificiale possono avere sulla prosperità condivisa, sull’uguaglianza o altri aspetti simili con alcuni politici, economisti e tecnologi. La loro reazione spesso è «stai dicendo che questa volta è diverso? In passato ha funzionato molto bene, e abbiamo sempre tratto beneficio dalle nuove tecnologie». Niente di più falso! Storicamente il rapporto tra innovazione e società è stato controverso e sono numerosi gli esempi di tecnologie utilizzate in modo improprio, o che hanno avuto conseguenze non previste dalle istituzioni che le avevano introdotte o che, in taluni casi, hanno segnato la fine delle istituzioni stesse. Ed è questa la ragione per la quale volevamo avere una prospettiva storica. E la lezione più importante che ne abbiamo tratto è che non c’è nulla di automatico e scontato nell’introduzione di nuove tecnologie e nella loro eventuale capacità di portare prosperità condivisa. In effetti, il loro avvento potrebbe essere all’origine di maggiori diseguaglianze tanto a livello economico quanto di potere.
È possibile prevedere se l’intelligenza artificiale avrà un impatto negativo sull’occupazione?
No, non è possibile prevederlo, ma è ragionevole pensare che potrebbe avere un impatto sul breve periodo. Ripeto, non c’è niente di automatico o scontato quando nella realtà si riversano nuove tecnologie.
Restiamo sul tema dell’intelligenza artificiale e riflettiamo sul crescente uso di ChatGPT. C’è un dibattito, almeno qui in Europa, sul fatto che queste tecnologie siano incredibilmente omogenee, se così si può dire. Il settore dell’intelligenza artificiale è cioè prevalentemente gestito e governato da maschi bianchi e benestanti.
Beh, penso che ci sia un grosso problema, sì, ma che sia ben più ampio. Nel libro ribadiamo infatti quanto ci sia bisogno di prospettive diverse. E, per forza di cose, prospettive diverse non possono che provenire da contesti differenti. È molto importante. Va detto però che nel settore tecnologico possiamo riscontrare una sempre maggiore eterogeneità. Per esempio, negli Stati Uniti studiano e lavorano in questo campo persone che provengono dalla Cina, dalla Turchia, dall’India, alcune dall’Italia. Hanno background diversi, ma sono guidati dalla stessa visione, condividono spesso le priorità, ma a volte anche criticità, punti ciechi, pregiudizi. Quindi, ritengo che ci sia davvero bisogno di una molteplicità di obiettivi e di approcci. Ed è un risultato più complesso e ambizioso, che non raggiungeremo semplicemente aumentando la diversità demografica.
Vede differenze o similitudini nell’evoluzione dell’innovazione tra gli Stati Uniti e l’Europa?
Credo sia una questione piuttosto interessante perché gli Stati Uniti hanno un problema di regolamentazione e l’Europa ha un problema di innovazione. E le due cose forse sono collegate, ma non credo lo siano al 100%. In un eccesso di semplificazione, alcuni potrebbero affermare che l’Europa non sta innovando nelle tecnologie di IA perché ha un approccio normativo più solido. Non credo sia giusto. Anzi, sono convinto che l’Europa stia commettendo degli errori politici nella regolamentazione. Allo stesso tempo, penso che il Vecchio Continente sia più avanti degli Stati Uniti in termini di aspirazioni e obiettivi politici da cui gli Stati Uniti dovrebbero imparare. In ultima analisi, l’Europa in termini generali ha un buon approccio normativo, ma dovrebbe investire di più nell’innovazione. E Bruxelles dovrebbe essere in prima linea nell’indirizzare gli investimenti nelle direzioni più vantaggiose dell’innovazione, non limitandosi a regolamentare e sperare che lo facciano le aziende americane e cinesi.
Guardiamo al futuro. Nell’immaginare il mondo tra trent’anni vede un’evoluzione della tecnologia capace di contribuire con successo alla lotta alla povertà e alle diseguaglianze sociali? Si sente ottimista?
No. Direi che sono un cauto ottimista quando si tratta delle capacità delle tecnologie, ma sono pessimista quando si tratta della traiettoria che abbiamo delineato per loro. Prendiamo per esempio il settore sanitario. Abbiamo fatto enormi progressi in termini tanto di prodotti farmaceutici quanto delle conoscenze che abbiamo ora a disposizione in materia di salute pubblica. Se avessimo avuto questa conversazione quindici anni fa, guardando al campo medicale, sarei stato ottimista. Ma se guardo agli Stati Uniti, la verità è che da quasi un decennio l’aspettativa di vita è in calo. In media, è diminuita molto bruscamente per i lavoratori senza un diploma di laurea. Quindi non si tratta di capacità, ma del modo in cui stiamo usando quelle tecnologie sanitarie. Stiamo spendendo miliardi di dollari per prolungare la vita dei miliardari delle big tech, ma non abbastanza soldi per affrontare il diabete nei bambini o le malattie dei neonati, oppure i problemi di salute o i casi di depressione tra le comunità economicamente più svantaggiate. In altre parole, le capacità ci sono e sarà il loro impiego a fare la differenza. Sono un sostenitore del fatto che possiamo usare l’IA in una funzione pro-lavoratore e pro-cittadino. Il che significa aumentare le capacità dei lavoratori, creare nuovi compiti per loro, migliori informazioni, maggiore autonomia, agenzie di sostegno per i lavoratori. Ma possiamo impiegare l’IA anche per costruire migliori piattaforme democratiche: meno manipolazione, protezione contro mistificazioni e pregiudizi. Purtroppo, quando vedo in quale direzione sta virando l’industria – tanto le grandi imprese, quanto le piccole e medie imprese – del settore tecnologico, mi accorgo che tutto il settore sta navigando a vele spiegate verso la peggiore specie delle automazioni, delle manipolazioni e delle raccolte dati, delle centralizzazioni delle informazioni e delle mistificazioni delle informazioni.
Dalla sua risposta emerge la denuncia di un problema culturale. Potremmo dire che bisogna mettere al primo posto il fattore umano, che forse è una questione di cultura.
Direi che cultura non è la parola giusta. Direi piuttosto che abbiamo un problema tecnologico, e che il problema tecnologico è incorporato nelle istituzioni, nelle norme e nelle azioni. A mio parere, quando si parla di cultura, la gente pensa alla cultura religiosa o alla cultura nazionale. Possiamo forse definirla cultura, ma in modo più ristretto, è più corretto parlare di cultura tecnologica. E in questo senso, l’America aveva priorità e visioni molto diverse per la tecnologia e per il comportamento aziendale negli anni Cinquanta rispetto a oggi. Oggi la cultura tecnologica è la Silicon Valley. Non voglio essere frainteso: la Silicon Valley è una risorsa straordinaria per gli Stati Uniti. È la fonte di molta ricchezza, innovazione, prosperità e vantaggio produttivo. Ma, allo stesso tempo, è anche un posto orribile. Basta guardare alle priorità in termini di valori, a come abbia manipolato e utilizzato la tecnologia. Quindi, dobbiamo trovare una strategia per porre ogni possibile barriera contro il male della Silicon Valley, per regolamentarla, darle dei riferimenti etici e valorizzare quanto di buono ha da offrire.
Lei ha detto che ricercatori ed esperti di tutto il mondo – dall’Europa alla Cina, all’India – stanno attualmente lavorando negli Stati Uniti su progetti di intelligenza artificiale. Da un punto di vista accademico, pensa che ci sia spazio per una maggiore collaborazione globale al fine di trovare insieme modi migliori per lavorare con le nuove tecnologie?
Penso che ci siano tutte le basi tecnologiche per fare qualcosa di migliore. Possiamo avere partenariati più vantaggiosi e possiamo avere aziende che coinvolgano i lavoratori, che lavorino con la società civile, che riescano a fare profitti creando tecnologie avanzate per le comunità e i lavoratori. In realtà sono convinto che sia tutt’altro che inutile puntare su tale approccio, ma non è questa la svolta su cui le grandi aziende tecnologiche stanno scommettendo.
Da economista con una forte attenzione alla tecnologia e ai suoi impatti socioeconomici, ha un suggerimento specifico per il nostro paese?
L’Italia è un paese meraviglioso, forte di una cultura straordinaria. Ciononostante, vedo un malessere economico profondo. Ancora una volta, non la definirei una questione puramente culturale. Dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, il vostro paese ha ottenuto risultati eccellenti in molti settori: automobili, macchine utensili, computer. Aveva aziende di livello mondiale. Purtroppo non è stato in grado di sfruttare questi punti di forza e ci sono alcune ragioni istituzionali. Possono esserci state congiunture sfavorevoli. Per esempio, alcuni di questi settori sono diventati molto competitivi a livello internazionale. Le regioni del Sud hanno problemi endemici mai superati. Ma c’è anche un problema nel Nord Italia, dove molte di queste industrie di frontiera a più alta produttività non sono state in grado di mantenere il loro primato o di superare i passaggi generazionali. A ogni modo, non vedo grandi ostacoli per avviare una nuova fase di rilancio. Il paese ha una forza lavoro molto istruita, un grande accesso a tutte le conoscenze scientifiche e a tutti i mercati del mondo. Tuttavia c’è un problema di direzione e di classi dirigenti politiche, come in altri paesi occidentali. La democrazia non può sopravvivere se le persone perdono la fiducia nel mercato e nella democrazia. E dopo oltre trent’anni di stagnazione e disfunzioni, è molto difficile mantenere quella fiducia.
Nel 2024 i cittadini statunitensi voteranno per il loro prossimo presidente. A prescindere da chi vincerà le elezioni, qual è la priorità che suggerirebbe all’agenda della Casa Bianca?
La mia opinione è che il problema più grande che gli Stati Uniti hanno avuto è stato quello di trascurare i lavoratori. Un problema istituzionale, oltre che ideologico. Sia da parte dei democratici che da parte repubblicana. Ed è, tuttavia, un problema anche tecnologico. Quindi, penso che rendere i lavoratori americani il fulcro di tutte le politiche rappresenti la questione decisiva. Non credo che si possa avere una politica commerciale che ignori i lavoratori americani. Non credo che si possa avere una polizza di assicurazione sociale che ignori i lavoratori americani, e che non si possa o non si debba avere una polizza tecnologica che ignori i lavoratori americani. Il nostro libro prova a fare delle proposte. È incentrato sul reindirizzamento della tecnologia verso una direzione più professionale. E in un certo senso l’attuale amministrazione ha compiuto passi importanti in questa direzione: penso all’IRA Act o al CHIPS Act. Biden ha assunto una posizione pro-lavoratori, per esempio, e l’ordine esecutivo sull’IA contiene alcune importanti dichiarazioni al riguardo. Ma non ne ha fatto – come forse è necessario – il fulcro della sua politica tecnologica. Ma penso anche, anzi spero, che questa non sia solo una questione democratica. Mi auguro che in futuro sia i politici di centrodestra che quelli di centrosinistra, sia in Europa che negli Stati Uniti, avranno un’agenda più favorevole ai lavoratori.
È una soluzione possibile, almeno per l’Europa e gli Stati Uniti?
Questa è la mia convinzione. Non è una cosa facile da fare, ma la speranza c’è.
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