Algoritmi per fare gol. Intervista al leader calmo
Carlo Ancelotti da Reggiolo. È uno dei simboli del made in Italy.
Figlio di contadini, è orgoglioso di raccontare che da bambino si arrabbiava quando il proprietario terriero veniva a casa a prendere metà del raccolto. E il suo papà gli raccontava che invece era giusto così. Probabilmente le sue radici lo hanno aiutato a non smarrire mai il senso della realtà. E a guardare continuamente al futuro con ottimismo e curiosità. Come tutte le persone realmente dotate di intelligenza, Ancelotti ha saputo adattarsi alle diverse situazioni che si è trovato ad affrontare. Sin dai tremendi infortuni che lo colpirono da calciatore. Allora, avrebbero potuto comprometterne la carriera. Arrigo Sacchi non smette di raccontare che quando Silvio Berlusconi cercò di opporsi al suo acquisto («Ha un ginocchio la cui funzionalità è ridotta del 20%»), gli rispose: «Sì dottore, ma il cervello funziona al 100%». E il cervello, in questa conversazione, tornerà protagonista.
Da anni, tanti anni, di professione fa l’allenatore di calcio. Con discreto successo, per usare un eufemismo. Ma potrebbe tranquillamente essere un diplomatico o il manager di una grande azienda. Tra i tanti record che possiamo citare per lui, ci piace ricordare che può esibire ufficiali e ostentati attestati di stima da parte di Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimović: non proprio due personcine prodighe di complimenti.
Ha cominciato a praticare sport, il calcio, quando internet e le pay-TV erano fantascienza. Ai suoi tempi, il portiere poteva regolarmente raccogliere con le mani i passaggi all’indietro dei suoi compagni. Ma Ancelotti è l’esatto contrario di un passatista. È un tenente Colombo, questo sì. Una delle sue frasi più note riguarda l’uso delle statistiche nel calcio: «In una partita, le uniche statistiche rilevanti sono i gol fatti e i gol subiti». È il suo modo per mostrare distacco nei confronti della valanga di dati che hanno invaso il calcio. Questa è l’etichetta esibita. In realtà, Ancelotti è uno di quei professionisti che conosce e sa come affrontare la complessità. E che sa bene che oggi la scienza – statistica o biochimica – è fondamentale per lo studio e l’evoluzione degli atleti e del loro comportamento. E per questo si circonda di giovani professionisti al passo con i tempi.
Peraltro, per uno scherzo beffardo del destino, fu lui – suo malgrado – a introdurre le statistiche nel calcio. «Avevo rimosso: a USA ’94, Arrigo Sacchi – era suo vice in Nazionale – mi piazzò in tribuna e guardavo le partite descrivendole ad alta voce a un addetto che trascriveva: “Albertini, passaggio verticale, Donadoni dribbling, palla persa”. Sul modello di Ugo Tognazzi nel film “Il federale”: “Buca, buca con acqua”. E puntualmente – racconta – gli spettatori seduti accanto in tribuna si alzavano e cambiavano posto nel giro di pochi minuti».
«Sono cresciuto in un ambiente in cui l’elemento più importante del calcio era l’occhio. Ti fidavi di ciò che vedevi, delle tue sensazioni. Non c’erano numeri, oltre a quelli delle classifiche. Oggi è cambiato tutto. E non solo nel calcio. Anche a livello fisico, la bontà di un allenamento era misurata dal livello di dolore che avvertivi l’indomani nelle gambe. Un tempo, le sedute erano standardizzate: venti minuti di riscaldamento, trenta di partitella, lavori a secco, balzi, salite. Oggi sarebbe considerata una barzelletta, anche se qualcuno continua ancora a ragionare in questo modo. La scienza ha cambiato radicalmente lo sport e lo ha cambiato in meglio, ovviamente. A livello fisico, in ogni disciplina, è diventato molto difficile sbagliare preparazione. Degli atleti si conosce tutto. E i dati non mentono. La biochimica è diventata fondamentale nella valutazione del recupero dell’atleta. E non è soltanto biochimica. Gli esempi sono concreti. Non tutti sanno che con l’Atalanta quest’anno ha collaborato Jens Bangsbo uno dei più grandi innovatori dal punto di vista della preparazione. È un professore universitario. È stato uno dei primi a introdurre nel calcio il concetto del lavoro atletico con la palla. L’ho conosciuto alla Juventus, aveva una collaborazione quando allenavo la squadra. Ma i suoi metodi allora furono giudicati troppo innovativi. Non so in che misura, ma sicuramente nell’ottima stagione dell’Atalanta ci sono anche la sua capacità e la sua visione. Lui è scienza».
Non tutti hanno Bangsbo nel proprio staff, di certo «negli ultimi tempi – prosegue Ancelotti – nello sport sono nate e si vanno affermando figure professionali che fino a qualche anno fa non esistevano e nemmeno potevano essere immaginabili. Nell’entourage dei club e degli atleti, che si tratti di basket, di pallavolo o di altri sport, sempre più importanza è dedicata all’analisi dei dati, alla radiografia della performance». Il tennista Novak Djokovic, giusto per fare un esempio, ha assunto l’analista dati dell’ATP, l’Associazione tennisti professionisti (l’organizzazione che cura il circuito internazionale).
È cresciuto in una squadra – il Milan – che con la creazione del Milan Lab è costantemente all’avanguardia a livello tecnologico. «Ovviamente è sempre l’atleta il motore di tutto. L’atleta, con la sua complessità psicologica, con le sue debolezze e le proprie forze. Tutt’intorno, però, i cambiamenti si susseguono e non stare al passo con i tempi comporta perdita di competitività. In ciascuno sport. L’evoluzione tecnologica, che è anch’essa un prodotto della scienza, è diventata una componente indispensabile, direi fondamentale, in tutte le discipline. Ormai non più soltanto in quelle canoniche come, ad esempio, la Formula Uno».
L’uomo sempre al centro di tutto, ricorda Ancelotti. Pur senza mai sfociare in una presa di distanza dall’innovazione. Anzi. Da lui, però, non ascolteremo mai la frase pronunciata dall’ex campione mondiale di scacchi Garry Kasparov: «Oggi l’intelligenza artificiale mi batterebbe in poche mosse». L’allenatore che ha alzato due Champions con il Milan e una con il Real Madrid, difende la specificità del calcio.
«È uno sport diverso. È lo sport di tutti perché possono giocarlo in tanti: alti, bassi, magri, grassi. Sì, oggi l’aspetto atletico conta molto di più rispetto a quando giocavo io. Ma ancora adesso la vera differenza del calcio rispetto agli altri sport è che non esiste il prototipo del calciatore ideale. Non l’hanno individuato. Non c’è una caratteristica fisica per cui potrai dire: diventerà un calciatore. A livello scientifico è impossibile individuarlo. E il motivo è molto semplice: perché non siamo ancora riusciti a misurare il cervello, le sue capacità. Anche se ci stiamo avvicinando». Siamo tornati al punto.
«Nel calcio – prosegue il leader calmo, come il titolo del suo ultimo libro – conta tanto l’intelligenza: conta decidere, nel tempo più breve possibile, cosa fare e farlo bene. È questo che fa la differenza, al di là delle caratteristiche tecniche. E nel calcio è più complesso. In altri sport, come ad esempio la pallacanestro e la pallavolo, si gioca in spazi molto più ristretti. Lì gli schemi hanno un impatto e una rilevanza decisamente superiori. Nel calcio non è così. È più complesso riproporre in maniera fedele uno schema di gioco. Conta tanto allenare la capacità di decisione».
La scelta giusta al momento giusto. L’intelligenza calcistica. E qui ritorna la scienza. Al Napoli, Carlo Ancelotti con il suo staff – tra cui c’è suo figlio Davide oltre al preparatore atletico Francesco Mauri – hanno avviato una collaborazione con STATS, un’azienda specializzata che fornisce la cosiddetta “game intelligence”. Alla base c’è un algoritmo complesso che spacchetta la partita di ogni singolo calciatore e ne fornisce anche l’indice di efficienza tecnica. Una novità assoluta.
«Per la prima volta – racconta – la scienza entra nella dimensione tecnica. In ogni momento della partita, quando ha il pallone, il calciatore deve prendere una decisione. L’algoritmo che è alla base della game intelligence, ti indica quali opzioni ha avuto in quel momento il giocatore con la palla, e quale sarebbe stata la scelta più efficace. Proprio come negli scacchi. La mossa migliore. Adesso puoi capirlo anche nel calcio». Alfiere in a3, Neymar al limite dell’area di rigore. E puoi sapere se ha sbagliato scelta, se ha sbagliato l’applicazione della scelta, e ovviamente organizzare lavori specifici per migliorare la prestazione dell’atleta.
Lionel Messi come Bobby Fischer. Due irregolari. Il secondo certamente più del primo. Che spesso ha stravolto quelli che potremmo definire gli “algoritmi dell’epoca”. Che vedeva diagonali e capacità di offesa laddove altri scorgevano il nulla. Che squassò il sistema nervoso di Boris Spasskij. Così come oggi Messi fa ammattire coloro i quali misurano esclusivamente la sua performance fisica. I dati di volume raccontano la prestazione di un dilettante. Perché i dati fisici, senza essere incrociati con quelli tecnici, non riescono a descrivere una prestazione. È il motivo per cui Usain Bolt ha invano provato a fare il calciatore.
Carlo è convinto che il calcio professionistico ad alti livelli vada sempre più nella direzione dell’NBA: «Il modello è quello. Si giocherà ogni due-tre giorni. E ci si vedrà al campo esclusivamente per l’allenamento tattico. Un’ora e via. Poi, ciascun atleta gestirà se stesso. Non dovremmo dirlo, ma lo diciamo: in alcuni casi, accade già così. Ci sono calciatori che seguono preparazioni personali, magari in antitesi o comunque in contrasto con le indicazioni dello staff societario. Dico questo perché il calcio sta vivendo una fase di cambiamento che altri sport hanno già superato. E l’atleta più forte, che guadagna di più avrà anche a propria disposizione lo staff più preparato. Le nuove figure professionali si specializzeranno sempre di più, sia dal punto di vista della preparazione sia dal punto di vista analitico. Ogni atleta è un’azienda. Poi sta all’azienda decidere come e quanto investire su di sé, anche e soprattutto dal punto di vista scientifico. È sufficiente pensare a questo concetto per rendersi conto di cosa sia diventato oggi lo sport. Chi prima lo comprende, ha un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Può piacere o no, è così. E sarà sempre più così».
Prima di congedarci, non possiamo non chiedergli degli effetti collaterali della scienza. Ossia del doping: «Quella è biochimica che però servirebbe per controllare non per alterare. Ci sono sport in cui il doping funziona. Sono le discipline basate essenzialmente sull’aspetto fisico. Nel calcio, ad esempio, è anche una questione mentale, di applicazione, di capacità di concentrazione. È molto più complicato modificare in meglio una prestazione».
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