L’uomo è più forte dell’IA
Intervista a Roberto Cingolani.
Roberto Cingolani guida da un anno Leonardo SpA, socio unico della Fondazione Leonardo che edita questa rivista. Nelle scorse settimane ha presentato il piano industriale della società di cui troverete una sintesi nel corpo delle pagine seguenti.
Qui leggerete una conversazione su temi più generali. Cingolani è un professore ordinario di Fisica, è stato al vertice dell’Istituto italiano di tecnologia, e ministro della Transizione ecologica nel governo Draghi. Oggi è il capo operativo della più grande impresa manifatturiera italiana che si confronta con una fase di importanti cambiamenti. L’instabilità politica globale, il riassetto degli equilibri economici tra le potenze, due guerre ai confini dell’Unione europea, l’accelerazione dell’intelligenza artificiale generativa ai tempi di ChatGPT, una complessiva stagione di trapasso tecnologico e culturale che investe anche i sistemi economici più sedimentati, come il nostro. Cominciamo dall’impresa e dalla sua missione.
Qual è il ruolo di una grande azienda industriale e tecnologica in un paese come il nostro, ancora forte nella manifattura e con alcune eccellenze anche in settori avanzati ma molto sparpagliate?
Innanzitutto una considerazione sul mercato. Come seconda manifattura europea e come una tra le prime dieci al mondo, avremmo bisogno di più giganti industriali. Non è più così, molte cose si sono perdute o ridimensionate. Oggi Leonardo è una delle poche aziende italiane con dimensioni paragonabili agli omologhi player europei. Da questa azienda dipendono oltre 50.000 dipendenti con le loro famiglie e un indotto di 4000 imprese. Il fatturato della maggior parte di esse dipende strutturalmente dalle nostre commesse. Stiamo parlando di altre 120.000 famiglie. Questa è una grande responsabilità rispetto alla comunità in cui operiamo. Poi c’è una questione legata al futuro. In una società avanzata, al di là della politica e delle esigenze del mercato, le grandi imprese devono contribuire a un’idea di futuro, quella che si definisce visione.
C’è questa visione nel nostro paese?
In generale, in tutto l’Occidente in questo momento è difficile avere una visione. Tutto sta cambiando e il mondo è in cerca di nuovi equilibri.
Che ruolo può avere la tecnologia nel determinare una visione?
Come sempre lo sviluppo tecnologico delimiterà degli spazi culturali. E non è detto che sia possibile anticipare la direzione delle cose. A New York alla fine del XIX secolo la viabilità cittadina era compromessa dallo sterco degli animali da tiro, con grandi problemi igienici. L’automobile aumentò la mobilità e risolse il problema igienico. Ma poi la stessa automobile sarebbe diventata il produttore di un terzo delle emissioni globali di CO2, cosa decisamente più grave della crisi della nettezza urbana nelle metropoli ottocentesche. Ora il problema è ridurre quelle emissioni. La tecnologia è continuamente impegnata in una rincorsa con i problemi che risolve e quelli che genera.
Vuol dire che la tecnologia non è così neutra?
Voglio dire che dobbiamo sempre lavorare per renderla neutra.
Questa considerazione sulla non neutralità può essere estesa all’uomo, come generatore di tecnologia?
Homo Sapiens è un predatore. Ed è stato l’unico predatore della storia capace di aumentare le sue performance. Ciò è contemporaneamente un difetto e una forza. Ogni volta che aumentiamo le nostre prestazioni, ogni volta cioè che sviluppiamo progresso, dobbiamo trovare il modo per ricomporre l’equilibrio con l’ambiente circostante. Questo è stato un problema già nel Novecento, oggi è cruciale.
Spazio e cybersecurity che cosa sono nella sua strategia?
I dati sono la nostra nuova valuta. La cybersecurity è tutto quello che provvede alla sicurezza della nostra valuta. È una serratura, una cassaforte. È anche un orizzonte di fatturato. Lo Spazio, invece, è un punto di osservazione sul futuro. Molte cose accadranno nello Spazio. Dobbiamo esserci. Noi come generazione non faremo in tempo a partecipare alla migrazione del Sapiens, ma credo che la migrazione spaziale in un tempo ragionevolmente immaginabile sarà inevitabile.
Lei è stato ministro per la Transizione ecologica e lo scorso anno ha scritto un libro – con qualche elemento del manifesto – in cui spiega la complicazione dei cambiamenti in atto e l’intreccio in essere tra transizione ambientale, digitale, energetica e industriale. Sono passati dieci mesi. Ci sono elementi nuovi alla sua evidenza?
Sì. C’è un fatto nuovo. Si è attenuata quell’ondata di ideologismo che ha preteso di dare risposte e soluzioni semplici a problemi complessi e geograficamente disomogenei come la transizione ambientale, energetica e digitale. C’è una ri-analisi sul problema del trasporto elettrico, una ri-analisi sul nucleare di ultima generazione, una riflessione sulla centralità della tecnologia e sulla sua flessibilità. Mi sembra chiaro che le soluzioni non possono essere uguali per tutti. Il gas è inquinante per noi paesi del G7, mentre migliora le condizioni ambientali nei paesi che vanno a carbone. Direi che l’Unione europea sta riflettendo sul fatto che non si può imporre la transizione ecologica sulla pelle della società. L’esistenza è un gioco che ha un obiettivo: ritardare la morte. Se l’alternativa è morire di ambiente tra 30 anni o di fame tra 3, la scelta è evidente. Ovviamente dobbiamo non morire di fame tra 3 anni e costruire le premesse per non morire d’ambiente tra 30 anni.
C’è un dibattito sul Green Deal, legato soprattutto alle scelte sull’automotive europeo. Che ne pensa?
Sono un convinto sostenitore dell’auto elettrica ma certamente non è la soluzione unica al problema dell’inquinamento causato dalle auto. Non solo non abbiamo ancora una rete in grado di garantire ricariche veloci ovunque, ma esiste un problema di gradualità che dipende dalle condizioni di partenza. Sul medio termine, sarebbe stato più ragionevole per l’Europa concentrare gli sforzi su motori termici più ecologici per sostituire i vecchi motori inquinanti che sono decine di milioni, continuando a sviluppare le auto elettriche per chi può permettersele. Invece così senza grandi risparmi nelle emissioni, stiamo smantellando la filiera dei motori termici.
È stato inferto un colpo mortale alla capacità produttiva installata in Europa?
Mortale forse no, ma c’è un ridimensionamento del nostro ruolo nell’industria automobilistica guardando al futuro. Non recupereremo sulle batterie, i cinesi sono troppo forti. Possiamo fare qualcosa sulla parte informatica.
Il nucleare che cosa potrebbe essere per il nostro paese e per l’azienda che lei guida?
Abbiamo bisogno di energia e deve essere programmabile. Avremmo bisogno di un nucleare pulito, i piccoli reattori modulari potrebbero darci una mano. Però c’è un pregiudizio radicale sul nucleare legato al fatto che i paesi a tecnologia nucleare sono anche potenze militari nucleari. Da ministro ho sollevato il problema e sono stato divorato, però direi che il dibattito è ripartito. E comunque per adesso non è una tecnologia di interesse di Leonardo, anche se in futuro potrebbero esserci sviluppi in un’ottica di sicurezza energetica nazionale.
Si parla di un commissario europeo alla Difesa, ne ha parlato Ursula von der Leyen, lei si è detto favorevole. Che conseguenze potrebbe avere sul rafforzamento dell’Unione?
Ci serve come fatto industriale perché ci costringerebbe alle concentrazioni tra imprese compatibili per fare economia di scala. Ma sarebbe innanzitutto una rivoluzione politica. Enorme. La difesa servirà sempre. Perché ci sarà sempre un Sapiens Putin o un Sapiens Kim.
Le regole europee – antitrust in testa – sono troppo restrittive?
Sì. E quelle antitrust particolarmente restrittive. Troppo legate all’idea che serva una struttura concorrenziale del mercato, indipendentemente dalle esigenze delle imprese e dei consumatori. È ideologia. È una vecchia storia che risale all’industria europea nell’intermezzo tra le due guerre. Oggi su difesa, energia e su tutto quello che riguarda investimenti strategici continentali dobbiamo allentare i vincoli. In una economia di pace si può pensare ai lussi regolamentari. Ma noi viviamo in una sostanziale economia di guerra. Ci sono 55 conflitti nel mondo in questo momento. Uno nel cuore d’Europa, un altro su una sponda fondamentale del Mediterraneo.
L’Europa si sta dotando di un AI Act. Molte discussioni, ma soprattutto una grande remora: l’Europa gigante normativo e nano industriale nel settore.
Appunto, come sopra. È come se stessimo preparando un millimetrico codice della strada, senza però avere automobili circolanti. Nell’alta tecnologia abbiamo perso il 5G, non abbiamo un cloud europeo, siamo in ritardo nel supercalcolo, in compenso produciamo molte, elegantissime norme.
L’obiezione è che trattandosi del primo mercato mondiale, le nostre regole impongono comunque degli standard globali, tipo la Commissione europea contro la fusione GE-Honeywell nel 2001.
È un’obiezione di maniera.
Quante possibilità ci sono che l’Europa sviluppi una nuova soggettività imprenditoriale nei settori dell’alta tecnologia e dell’economia digitale, paragonabile ad Amazon, Google, Meta, Microsoft, Apple, SpaceX?
Nell’alta tecnologia è molto difficile. Possiamo recuperare spazio nella manifattura. Prendiamo i lanci spaziali come esempio. SpaceX è un concorrente da 100 lanci annui, in Europa se ne fanno una decina. Nel segmento dei lanciatori abbiamo una capacità produttiva frammentata, gli italiani con Avio, i francesi con Arianne e i tedeschi con piccole società molto sostenute dal governo di Berlino. Dovremmo consorziarci.
Quanto conta secondo lei nel mondo di oggi la dimensione carismatica per governare processi di trasformazione epocali come quelli tecnologici?
Interessante questione che andrebbe affrontata laicamente. È un campo in cui c’è bisogno di due qualità: competenza e trasparenza. Certo, negli Stati Uniti sono spuntati dei geni del XXI secolo, i magnati dell’internet, da Zuckerberg a Bezos. La verità è che si tratta di un grande paese ad alta intensità di capitali e con regole che incentivano le idee nuove. Ma non è solo una questione di carisma. Il mondo della scienza applicata è un mondo che non è fatto solo di intuizioni e di talento. Presuppone ordine, programmazione, e managerialità. Nella modernità non conosco scienziati di successo che non siano anche buoni manager.
Intelligenza artificiale generativa. Qual è la sua posizione? È un fenomeno controllabile e in che misura?
Utilizziamo forme di intelligenza artificiale da molto tempo. Adesso c’è una novità, l’IA con grandi potenze di calcolo diventerà più invasiva. Ma la macchina farà sempre quello che vogliamo noi. Le macchine non hanno istinto di conservazione. Siamo noi che proiettiamo su di loro le nostre fobie di Sapiens.
L’intelligenza artificiale potrebbe diventare un’entità autonoma che auto-apprende?
Anche se la macchina apprendesse tutto lo scibile umano, non avrebbe alcun interesse a decidere a meno che qualcuno non glielo chiedesse. Assumiamo per un attimo quelle suggestioni alla Yuval Noah Harari, transumanesimo puro, super uomo, eccetera. Ammettiamo che un cervello aumentato da chip connessi con il web sia in possesso di tutti i dati condivisi dalla rete. Conoscenze umanistiche, lingue, leggi scientifiche, serie storiche, dati quantitativi. Per quel cervello aumentato, a che cosa servirebbe tutto ciò, senza la capacità di mettere quelle conoscenze e quei dati in relazione tra loro? È l’intelligenza il fattore decisivo. L’intelligenza umana.
C’è qualcosa di paragonabile all’IA in termini di deterrenza? Per esempio il nucleare… Non ci siamo autodistrutti…
L’intelligenza artificiale non è letale come si dice. Prendiamo il lavoro. L’IA avrà un impatto sull’occupazione nel medio termine, certamente, salvo il fatto che genererà nuovi lavori.
Per salvaguardare il lavoro, mi preoccuperei più della tutela dei salari e della libertà nei contratti che dei condizionamenti dell’IA. Che in sé, ripeto, è solo uno strumento. Può essere che un Sapiens pazzo possa utilizzare questa tecnologia a fin di male. Ma tutto ritorna alla dimensione della scelta umana.
Lei è sospettoso nei confronti delle piattaforme social. Questo sospetto si estende alla controversa stagione culturale e antropologica che esse incarnano?
Sì, completamente. Trovo insopportabile quell’avvertenza in testa agli articoli: per leggere questo, servono tre minuti. Cioè, se servissero nove minuti non lo leggeresti? Che altro hai da fare? Vuol dire che stiamo addestrando generazioni di individui superficiali. Poi c’è il problema delle fonti. Noi viviamo sempre sulle spalle dei giganti. Ma i social tendono a distruggere la continuità del sapere. Pensiamo agli antivaccinisti, ai terrapiattisti. Certo il potere pubblico ha delle responsabilità, per esempio a scuola nessuno insegna l’importanza dei vaccini. Non so se tutto questo sia irreversibile, di sicuro è una tendenza. Pensiamo che sia tutto gratis, ma in effetti il “prodotto siamo noi”, i dati della nostra vita, istantaneamente a disposizione di un sistema di cultura e di consumi.
Ha tre libri da suggerire a chi leggerà questa conversazione?
Ci provo, con due premesse. Rispondo d’istinto e non sono un lettore di letteratura, sono uno scienziato-manager focalizzato sulla formazione che ha ricevuto e sui suoi obiettivi.
Il primo suggerimento non è un vero libro, è una pubblicazione periodica delle Nazioni Unite. Il GEO, Global Environment Outlook. È arrivato alla settima edizione. È un gigantesco lavoro sullo stato dell’ambiente. Se ne può scaricare sul web una sintesi di circa 250 pagine. Formidabile. Sono raccolte le posizioni e le decisioni dei governi, i contributi dei portatori di interessi, e una summa delle rilevazioni governative e indipendenti sullo stato dell’ambiente. È un lavoro straordinario.
Il secondo suggerimento è un libro postumo di Piero Angela, “La meraviglia del tutto”. Piero Angela è stato un caso abbastanza unico in Occidente. Non era un tecnico, ma nessuno come lui sapeva spiegare le cose tecnico-scientifiche. Perché era uno studioso, uno studioso per passione. Nel Regno Unito dove c’è molta divulgazione, è tutto più naturale, sono culturalmente più attenti ai fatti. Ma da noi, Angela è stato un’eccezione e un esempio.
Terzo spunto, è una saga fantascientifica, “I Canti di Hyperion” di Dan Simmons. Parla del Tempo, sono affascinato dall’argomento del Tempo non solo come fisico.
Che cosa significa per lei il rapporto con l’eredità di valori industriali storici e di cultura d’impresa che l’azienda che guida racchiude in sé in quel quadrato di nomi evocativi Ansaldo-Alfa Romeo-Grande Finmeccanica-Leonardo?
Vengo da un altro mondo, credo in una forma di energia soggettiva di ciascuno e di ciascuno nel suo tempo. Capisco il fascino dell’eredità e, tuttavia, l’eredità non è sempre un valore. Nella storia dell’industria italiana ci sono tanti elementi fondativi e tante occasioni perdute. Non credo che il parastato abbia sempre giovato all’impresa italiana.
Ultima domanda. Se dovesse definire il moderno, come categoria dei tempi attuali…
Il moderno oggi è velocità. Piccolo esempio. Il segnale che parte dalla corteccia cerebrale arriva alla punta del piede in un decimo di secondo circa. Per un centometrista e anche per me. Così era anche 50 anni fa. Una e-mail attraversa il mondo da Roma a Hong Kong più o meno nello stesso tempo. 50 anni fa una lettera ci metteva settimane per arrivare dall’altra parte del mondo, air mail. Il Sapiens progredisce con il suo ritmo, mentre tutto intorno a lui è diventato più veloce e il metabolismo dell’intelligenza si è dovuto adeguare alla velocità. Stiamo cambiando da questo punto di vista. I ragazzi di oggi vedono molte più cose contemporaneamente, ma sono più superficiali. È una opportunità per la capacità di adattarsi, è un rischio per la capacità di governare processi. Dopotutto, è più comodo correre i 100 metri.
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