24.05.2023 Gemma Andreone

Un ambiente multilaterale

Il 5 marzo 2023 i giornali di tutto il mondo hanno riportato la notizia della storica conclusione presso la sede di New York delle Nazioni Unite dell’accordo sulla protezione della biodiversità marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale. 

Si è trattato di un momento emozionante per coloro che erano presenti all’ultima sessione di questo negoziato. Da quasi dieci anni si discuteva e si lavorava a un accordo che potesse portare la maggior parte degli Stati del mondo (erano coinvolte circa 150 delegazioni) a una stessa conclusione: la necessità di proteggere l’alto mare, quella vastissima area del nostro pianeta ancora profondamente sconosciuta.

L’entusiasmo è stato particolarmente significativo in considerazione del fatto che l’accordo è stato raggiunto in una delle fasi di maggiore crisi del multilateralismo, nel pieno del conflitto russo-ucraino e, quindi, in un’atmosfera di sfiducia verso il diritto internazionale e nei confronti del ruolo delle Nazioni Unite. In tale contesto, l’approvazione per consensus – senza cioè porre un voto sul testo dell’accordo – è stata forse raggiunta in virtù della posta in gioco. La protezione dell’ambiente marino e delle sue risorse è direttamente legata alla lotta al cambiamento climatico e alla perdita della biodiversità che, oggi, rappresentano le maggiori sfide, ma anche i principali pericoli per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra. L’obiettivo ultimo dell’accordo è quello di attuare forme di protezione e di gestione sostenibile degli oceani che siano armonizzate e concordate tra tutti gli attori competenti in determinate aree marine del pianeta. Un aspetto delicato che potrebbe porre problemi sia di interpretazione sia di applicazione, ma che rappresenta il massimo compromesso raggiungibile al fine di mettere per iscritto, nero su bianco, che le aree oltre la giurisdizione nazionale – attualmente considerate zone di libero accesso e sfruttamento – dovranno essere gestite e protette nell’interesse delle presenti e future generazioni.


Grazie all’introduzione di dettagliate norme in materia di risorse genetiche marine e di valutazione d’impatto ambientale, l’accordo mira a garantire che le attività antropogeniche nell’alto mare siano condotte in maniera sostenibile e che esse bilancino le necessità economiche con la tutela dei fragili ecosistemi marini oltre la giurisdizione nazionale. L’utilizzazione delle risorse genetiche marine, ivi comprese quelle reperite nella colonna d’acqua e nei fondali marini oltre la giurisdizione nazionale, inclusa la biotecnologia, nonché la Digital Sequence Information delle risorse genetiche, sono realtà di ricerca scientifica, ma anche di applicazione industriale in fase di avviamento in molti paesi industrializzati. Tali attività consistono in ricerca e sviluppo sulla composizione genetica e/o biochimica di tutte le risorse viventi non rientranti nelle attività di pesca, come per esempio vari tipi di alghe, incluse le diatomee e le spugne. 
Pertanto, è necessario ricordare che la seconda parte dell’accordo, dedicata alle modalità di utilizzo delle risorse genetiche marine reperite oltre la giurisdizione nazionale e alla condivisone dei relativi benefici monetari e non monetari a favore di Stati in via di sviluppo e geograficamente svantaggiati, esclude l’applicabilità di tali norme alla pesca condotta in alto mare.

Tra le principali e più controverse questioni contenute nel testo appena approvato vi è la creazione di un complesso sistema decisionale finalizzato a realizzare aree marine di gestione sostenibile o anche aree di sola protezione nelle zone di mare oltre la giurisdizione nazionale. Tale meccanismo decisionale dovrà, in ogni caso, tenere conto e rispettare le misure gestionali e protettive già previste da altre organizzazioni internazionali, regionali o settoriali nelle aree in discussione, attive in tutti i mari del mondo, dagli oceani Atlantico e Pacifico fino all’Artico, ai mari dell’Antartide e persino a mari semichiusi come il Mediterraneo.


Quando l’accordo entrerà in vigore, la Conferenza delle parti (COP), da esso prevista, potrà adottare misure di gestione in aree di alto mare, regolamentando e limitando le attività economiche, incluse quelle di pesca e di sfruttamento delle risorse abiotiche, al fine di prevenire o proteggere l’ambiente marino e la sua biodiversità. Queste misure andranno comunque previamente concordate con istituzioni e Stati costieri che siano direttamente interessati alle attività nelle aree oggetto di protezione. Per esempio, sarà sicuramente necessario uno stretto coordinamento con l’Autorità Internazionale per i fondali marini, istituita dall’UNCLOS, che ha il compito di regolare, in attuazione del principio del patrimonio comune dell’umanità, lo sfruttamento delle risorse abiotiche del fondo e del sottofondo marino oltre la giurisdizione nazionale.


Nel processo negoziale dell’accordo, il ruolo del consensus costruito attraverso gruppi informali è stato decisivo. Il principale esperimento con la procedura di consenso e con il fenomeno dei gruppi informali è stato il processo negoziale dell’UNCLOS, svoltosi in quasi un decennio tra il 1973 e il 1982. Già all’epoca, i gruppi di compromesso informali (noti anche come informal informals) si sono dimostrati strumenti molto più flessibili di quelli ufficiali tenuti in assemblea plenaria, aiutando i paesi avanzati e quelli in via di sviluppo a lavorare a stretto contatto. Il processo negoziale del BBNJ ha introdotto un’ulteriore variante dei gruppi informali. Infatti, gli small groups, riunioni molto informali condotte in inglese, sono stati utilizzati per facilitare la discussione sulla stesura di disposizioni specifiche e più controverse. Da un lato, questo tipo di gruppi ha permesso uno scambio di opinioni diretto e franco e ha consentito di prendere in considerazione potenziali compromessi. Dall’altro lato, la principale obiezione sollevata durante i negoziati allo strumento degli small groups per la costruzione di un consenso sulle disposizioni specifiche è stata l’ineguale condivisione degli oneri di questo metodo di discussione. Infatti, nei piccoli gruppi la lingua di lavoro era l’inglese e non era disponibile una traduzione simultanea nella lingua ufficiale. Questo aspetto ha inevitabilmente favorito le delegazioni anglofone e quelle con più disponibilità di risorse umane e finanziamenti tali da avere delegazioni con molte persone e garantire la presenza in più gruppi paralleli. Inoltre, poiché la discussione sulla stesura di singole disposizioni o capitoli avveniva simultaneamente, le delegazioni più piccole, la maggior parte delle quali rappresentava paesi in via di sviluppo o emergenti, erano svantaggiate. 
Infine, un elemento chiave del negoziato appena terminato è stato il coinvolgimento attivo delle organizzazioni non governative, le quali hanno avuto diritto di intervento durante le prime sessioni del negoziato e poi nelle fasi finali, essendo state sempre presenti alle riunioni plenarie quasi a monitorare e fare pressioni su tutte le dinamiche interne alla discussione. Le ONG hanno svolto un ruolo cruciale come mediatori nel mettere in contatto le delegazioni governative con gli esperti giuridici e tecnici. Oltre alle ONG, erano presenti in aula anche rappresentanti delle industrie di riferimento, interessate all’evoluzione del trattato e a specifiche norme, come industrie di pesca o per le applicazioni biotecnologiche.


Fino a pochi anni or sono l’oceano, o meglio l’alto mare, era percepito come uno spazio libero cioè non appartenente ad alcuno Stato, perché, di fatto, considerato privo di grandi risorse che potessero essere oggetto di competizione e spartizione tra gli interessati. Oggi, invece, grazie allo sviluppo delle tecnologie e a una maggiore conoscenza delle risorse marine, sia viventi sia abiotiche, e grazie all’emergere della moderna tecnologia di monitoraggio satellitare, gli interessi e le prospettive sono molto cambiati. 

Alla luce di questi cambiamenti le risorse e gli spazi oceanici lontani dalla costa vengono considerati sempre più, anche in virtù di questo trattato, come appartenenti all’umanità nel suo insieme, intesa quella presente, ma anche quella futura, e quindi meritevoli di rispetto e protezione da parte di tutti gli Stati.