11.09.2019 Pietrangelo Buttafuoco

Giulietta, la fidanzata d'Italia

La Giulietta Spider, icona italiana, conquista Parigi con il suo fascino

La fidanzata d’Italia fa il suo viaggio di nozze il 6 dicembre 1958. La sua notte d’amore è a Taormina e se ne resta nel cortile dell’hotel San Domenico per poi ripartire al mattino, varcare lo Stretto col ferribotte e cominciare la vacanza. Un giorno dopo l’altro prosegue il viaggio per risalire lungo lo stivale, fermarsi in Costa Azzurra e, infine, godere la luna di miele a Parigi.

Eccola: è parcheggiata davanti alle vetrate di Les Deux Magots a Saint-Germain-des-Prés. Il tempo di una tazza di cioccolata à l’ancienne e intorno a lei – ha il muso profilato, è bianca di carrozzeria ed è bagnata di pioggia – si forma un assembramento di ammiratori. Nata per sedurre, la Giulietta Spider – è lei la fidanzata d’Italia cercata da tutti i playboy – ipnotizza i parigini in quel mattino di dicembre. Qualcuno che ricorda di averla vista al Salone dell’automobile di Parigi, nel 1955, riteneva fosse solo un prototipo col volante a tre razze, un bozzetto dall’album dei sogni e non può credere che sia già su strada, con quei suoi rostri del paraurti anteriori così osé.

Francesco Rosso esce dal caffè ed è uno sposino troppo timido per farsi largo tra la folla incuriosita e ammirata di Juliette e rimettersi al volante. Non così la sposina, Paola Noto che, da provetta automobilista – è secondo pilota nelle gare di regolarità presso i circuiti – s’impossessa delle chiavi della vettura, apre la portiera al marito, dà gas ai due carburatori Weber del motore e pestando sull’acceleratore va in cerca degli Champs-Élysées.

Un rombo che è come un tambureggiare del cuore. La mascherina sul cofano – e la presa d’a - ria – come a far mostra solo di sorrisi. I fari tondi come gli occhi, così anche gli stop – sono come dei dischi – e i catarifrangenti, incastonati, come puro vezzo. Dal volante, infine – è una consolle, quasi, con il suo contagiri sul cruscotto – promana la snella potenza del motore bialbero.

Giulietta avanza sul pavé della capitale che fu del XIX secolo – sempre memore di esposizioni universali, di barricate e di flâneur – e inciampa nei più segreti pensieri di quella stessa città. Parigi, infatti, altro desiderio non ha che il desiderare. Quando a una cosa tende, Giulietta – per dirla al modo dei Capuleti – “è ardimentosa e pronta”.

La città di Francia, sempre senza fretta e senza meta, accoglie quella leggenda alla quale ha offerto il seme. È il 1950 quando in una serata del dopo Salone, in un pranzo di gala offerto al Lasserre dal direttore vendite dell’Alfa Romeo di Parigi, portando al guinzaglio Vasilij e Vasilij Vasil’evič, due pastori scozzesi a pelo lungo – girovago tra i tavoli – giunge il principe Alessio. Alla tavola d’onore sono seduti i dirigenti della casa automobilistica italiana. Il principe – un fuoriuscito russo, un eccentrico aedo della vita notturna parigina – salutando i convitati improvvisa un motteggio tutto di galante cortesia: «Je vois huit Roméo, mais aucune Juliette!».

Sopraggiunge in quel mentre la signora Giorgia de Cousandier che è la moglie di uno di loro, Leonardo Sinisgalli – «ecco Giulietta!», esclama il principe – ed è lei a cogliere la sera stessa quello spunto commentando in camera col marito la cena da poco terminata. Con le parole del principe, de Cousandier, ripete: «È vero, se ne vedono tante di Romeo nelle concessionarie del mondo, ancora però nessuna Giulietta…».

Sinisgalli fa propria l’idea – un nome di donna che arriva dal canovaccio di William Shakespeare – e quella serata di Parigi, oltre alle quattro ruote della Giulietta, va a fecondare anche “La Cambiale”, un film a episodi del 1959 di Camillo Mastrocinque dove c’è Andrea Bosic a interpretare il principe Alessio, maestro di seduzione di Vittorio Gassman, coiffeur per cani, con Vasilij e Vasilij Vasil’evič tra i suoi clienti.

Ecco alfine Giulietta tra i Romeo. Una macchina definitivamente donna, già nel nome, si fa carico di rappresentare un’epoca. A partire da quello stesso anno – il 1950 – la nuova stagione industriale, cinque anni dopo già si specchia in una vettura che dal modello 1900 dell’Alfa Romeo rinnova in un febbrile pezzo vivo di simmetria una certa idea della modernità. Il piano di lavoro – tenuto segreto con uno sviante codice, Tipo 750 – asseconda la strepitosa attitudine matematica dei meccanici di stanza alle Officine del Portello.

Ed ecco Giulietta che prende forma in un febbrile pezzo vivo di simmetria dove la spirale logaritmica rende decisamente l’idea: è un alveo leggero, tutto di rifiniture e di perfezione. Un bellissimo guscio che costringe la casa automobilistica a misurarsi con numeri sempre più importanti, dalla produzione di pochi esemplari, infatti, Alfa Romeo passa alla motorizzazione di massa.

I meccanici che vi lavorano, e così i progettisti, nel 1954 portano a conoscenza del pubblico questo capolavoro di coupé ed è naturale per loro dedicare intimamente i propri sforzi alla memoria di Ugo Gobbato, il capo dei tecnici Alfa Romeo ucciso a Milano nei giorni dell’odio del 1945. Al suo posto c’è Rudolf Hruska, l’uomo che con Ferdinand Porsche ha realizzato la catena di produzione del Maggiolino Volkswagen, ed è il valente ingegnere austriaco – che assieme a Francesco Quaroni, abile organizzatore conosciuto in Pirelli, con il quale attua il piano industriale per la fabbricazione della Giulietta – a spostare la scaletta di presentazione: prima il modello Sprint e un anno dopo – il tempo di azzerare l’invadenza del rumore del motore nell’abitacolo – al Salone dell’automobile di Torino, l’arrivo della berlina, l’auto che fa subito status per gli italiani: 50 cavalli, 4 marce, cambio manuale al volante.

Il romanzo di Giulietta comincia da un antefatto – il modello 1900 – e si sviluppa su quattro capitoli: Sprint, Spider, Berlina e SZ, cioè la Sport Zagato. La versione Promiscua, ovvero la Familiare, è un’appendice, ed è comunque – questa di Giulietta – una storia che dal 1955 fino al 1966 dissemina di sé il brio e l’imponderabile. Lo Spider, decapottabile, è pur sempre il modello con cui Daniel Day-Lewis si porta a spasso una sontuosa Sophia Loren. E sono sempre sfere di squillante nitore in gara con il vento.

L’epicicloide su cui s’interrogava Sinisgalli – una circonferenza che rotola su una seconda circonferenza fissa alla quale è esternamente tangente – ha il suo interfaccia di tenerezza proprio in Giulietta, con Shakespeare che dice «Chi è troppo veloce arriva tardi, come chi troppo lentamente arriva».

Giulietta che nel suo zenit di vendite – 100.001 esemplari – avrà come madrina Giulietta Masina a conferma di una naturalezza, quella di un’idea meccanica alimentata con benzina super e sempre pronta per le giornate del lavoro ma, anche, per il tempo guadagnato: per adeguate vacanze estive e invernali.

Tutto quello che viene dopo, perfino il Duetto – «l’armonia doppia, nel senso di grazia e forza», dirà Sinisgalli – è una variazione sul tema mentre l’altra Giulia, l’altra Alfa Romeo nata nel 1970, più che sorella è una filiazione, ma come un ramo cadetto se ancora oggi i collezionisti delle auto d’epoca staccano dal cofano delle vetture l’insegna Giulia per sostituirla con la più desiderata Giulietta.

Gioacchino Ventura, detto Tino, un pioniere dell’elettronica applicata all’industria meccanica delle quattro ruote, in quei beati anni Cinquanta, si aggiudica una Giulietta TI (Turismo internazionale) e così fabbrica il suo destino di argonauta tra le strade ancora bianche e l’ancora raro asfalto.

È, la Sprint, una macchina malandrina che non si può certo guidare col cappello in testa – «come fanno gli uomini di mezz’età al volante delle Lancia Fulvia», dirà Ventura – e che prevede di starsene alla guida in camicia, con le maniche arrotolate, il braccio fuori dal finestrino, l’orologio importante al polso e poi ancora con quel dettaglio: la giacca appoggiata allo sportello, sul bordo del finestrino, che nel dolce incedere di una velocità da rimorchio – nel riverbero del vento – riesce a far ciao ciao perfino a Proserpina.

Ancora nell’estate del 2019, a un raduno organizzato nel circuito automobilistico del Lago di Pergusa, in un esemplare di Giulietta, giusto quella disegnata da Nuccio Bertone, è stata vista accomodarsi la Dea in persona, afferrare il volante e prendersi questa volta lei – e non farsi rapire, come sempre – Plutone. Hanno fatto un giro di pista, hanno lasciato i fiori raccolti nel lago sui sedili – ciò perché grati della sensazione e del piacere che si prova alla guida – e poi si sono involati nel vento. Come sempre.

La casa automobilistica fondata da Nicola Romeo, venuto da Montalbano Jonico, non può che farsi radice nella poesia, regola di misura, visione e simmetria. Ed ecco che donna Paola – pilota, certo, ma anche insegnante di pianoforte, diplomata all’Accademia di Santa Cecilia – al rientro a Comiso, la sua città, dopo la luna di miele trascorsa a Parigi, prende possesso della Giulietta, fa come vuole e però mai da sola.

La volta che deve andare a Ragusa per le sue lezioni di musica e non c’è il marito, tocca a Gesualdo Bufalino farle da chaperon. L’autore di “Diceria dell’untore” – si sa – non ha patente, non guida e non vuole mettere piede in un’automobile. Diocenescampi però, non può che obbedire al papà di Paola – il farmacista, il dottore Noto – quando d’imperio lo costringe a entrare dentro la Giulietta Spider per accompagnare la giovane signora dai suoi alunni. Ed ecco come, Bufalino, in questo prezioso inedito, racconta quell’avventura:

(qui testo in italiano)

Guidare come suonare, dunque. Ed è regola di misura, visione e simmetria. E la sciarpa, anche, quella che Gesualdo meditava di tenersi al collo per i declivi iblei durante la traversata a bordo della Giulietta scoperta, con Paola Noto alla guida e che invece dimenticò di usare – alfine – e la smarrì. Assaporando nel percorso le seducenti volute intrise dello spirito di Archimede che sono perfette per gli Iblei, e figurarsi per Le Mans o Monza.