Apophis, Hera e la difesa planetaria contro gli asteroidi
Mancano cinque anni al passaggio, ravvicinatissimo, dell’asteroide “potenzialmente pericoloso” che fece tremare gli scienziati 20 anni fa, per una possibile collisione con la Terra. Ora agenzie spaziali e compagnie voglio studiarlo quando passerà dalle nostre parti nel 2029 e intanto si continua a lavorare per evitare all’umanità la fine che fecero i dinosauri.
È successo nel dicembre del 2004, forse la scena che più si avvicina a quelle di film come Armageddon o Don’t look up. Un grosso asteroide (fra i 300 e i 400 metri di diametro) appena scoperto, sembrava dover collidere con la Terra da lì a 25 anni. La data cerchiata in rosso sul calendario era il 13 aprile 2029: 2,7 probabilità su 100 di colpire il nostro Pianeta. Fortunatamente, ulteriori osservazioni fatte nei giorni, nei mesi e negli anni seguenti, permisero di calcolare meglio la sua orbita e si arrivò a escludere un rischio concreto di impatto almeno nel prossimo secolo.
Ciò non significa che 9942Apophis non ci passerà vicino, anzi: tra cinque anni ce lo ritroveremo alle porte, a una distanza addirittura inferiore a quella dei satelliti geostazionari delle tv, del meteo e dei servizi di comunicazione. Transiterà così vicino, circa 36.000 chilometri, che dovrebbe essere visibile a occhio nudo, ma abbiamo la certezza che non ci colpirà nei tre prossimi passaggi più a rischio, 2029, 2036 e 2068. In previsione di questo evento eccezionale, agenzie spaziali e compagnie private si preparano per accogliere Apophis e organizzare un incontro per studiare da molto vicino un asteroide potenzialmente pericoloso.
Se Apophis ci colpisse
Il diametro stimato di Apophis è di circa 320-350 metri, sarebbe alto più o meno come la Tour Eiffel, è un asteroide roccioso, quindi piuttosto resistente, non una montagna incoerente di ciottoli (rubble pile) tenuta insieme dalla gravità, insomma. Le stime degli effetti di un impatto dovrebbero tenere conto dell’angolo di caduta e della zona colpita. Sarebbe sicuramente devastante a livello regionale, scaverebbe un cratere di diversi chilometri di diametro o solleverebbe uno tsunami che colpirebbe nel raggio di centinaia o anche migliaia di chilometri.
Tutto sommato, però, data la sua taglia sì ragguardevole, ma non ciclopica, Apophis non provocherebbe effetti a lungo termine, come un cosiddetto “inverno da impatto”. Non è considerato un “planet killer”, definizione che più si adatta al corpo celeste che sentenziò la fine dei dinosauri, 65 milioni di anni fa, o ancor di più all’asteroide di Armageddon (“ha le dimensioni del Texas, signor presidente”).
Cosa c’è là fuori
Apophis è classificato come “Near Earth object” (Neo), ne fanno parte “asteroidi o comete di dimensioni variabili da metri a decine di chilometri che orbitano intorno al Sole e le cui orbite si avvicinano a quella della Terra. Degli oltre 600.000 asteroidi conosciuti nel nostro Sistema solare”, spiega l’Agenzia spaziale europea (Esa), ad aprile 2024, i Neo sono circa 35 mila. Se l'orbita di un Neo arriva entro le 0,05 unità astronomiche (7,5 milioni di chilometri, circa 20 volte la distanza Terra-Luna) dall'orbita terrestre ed è più grande di circa 120 metri, viene definito “Potentially hazardous object” (Pho, “potenzialmente pericoloso”) perché un oggetto di queste dimensioni è in grado di sopravvivere al passaggio attraverso l'atmosfera e di causare danni estesi al momento dell'impatto”. Apophis è sia un Neo che un Pho.
A dispetto del nome, non è detto che un oggetto “potenzialmente pericoloso” abbia delle probabilità di piombarci addosso. Ma vanno tenuti d’occhio. I telescopi di tutto il mondo forniscono, ogni giorno, osservazioni e dati al Minor planet center per aggiornare i calcoli delle orbite e determinare il rischio reale di una collisione. La “Scala Palermo” tiene conto sia delle probabilità di collisione, sia delle dimensioni e quindi dei potenziali danni che ne deriverebbero (un asteroide di 10 metri di diametro con alte probabilità di colpirci sarebbe comunque molto in fondo alla lista perché non sopravvivrebbe all’ingresso in atmosfera). Ogni giorno migliaia di scienziati e astrofisici sono a guardia per avvertirci di possibili minacce dal cielo, come il team del Neocc al centro Esrin di Frascati.
L’oggetto che finora ha registrato il valore più alto è stato proprio Apophis, con una probabilità su 37 di colpire il nostro Pianeta, altissima se si pensa che in testa a questa speciale classifica c’è ora Bennu, il corpo celeste visitato dalla sonda Osiris-Rex della Nasa nel 2020. Bennu ha una probabilità di colpirci di 1 su 1.800 in 157 passaggi ravvicinati tra il 2178 e il 2290. Il secondo, (29075) 1950 DA, è un bestione che sarebbe preoccupante, un chilometro e 300 metri di diametro, se non fosse che ha una bassissima probabilità di colpirci (1 su 34.000) nel 2880. Tutti gli altri hanno per lo più dimensioni minuscole. Recenti studi hanno escluso anche che l’influsso gravitazionale della Terra, che modificherà l’orbita di Apophis nel 2029, possa portare a un rischio durante uno dei passaggi successivi. Per un po’ possiamo stare tranquilli. Almeno se parliamo di asteroidi.
Ora è Apophis il bersaglio
La missione Osiris-Rex ora ha cambiato nome: si chiamerà Osiris-Apex. Dopo aver “rubato” un po’ di materiale da Bennu e avercelo consegnato sul pianerottolo di casa (nello specifico, la capsula con i campioni si è posata nel deserto dello Utah, ora ha un altro appuntamento, proprio con Apophis. Osiris-Apophis explorer si avvicinerà all’asteroide nei giorni in cui sfiorerà la Terra. Non per raccogliere campioni, questa volta, ma per studiare da vicino le caratteristiche di quello che, comunque, rimane un “potentially hazardous object”. Anche da Terra centinaia di telescopi dell’emisfero orientale (quello dal quale sarà visibile Apophis, Italia compresa) saranno puntati verso quell’angolo di cielo. Sarà la prima volta che uno di questi oggetti potenzialmente pericolosi sarà visibile con questa brillantezza. Come una stella di media magnitudine, mentre sfreccia nel cielo sullo sfondo del firmamento.
Sarà un evento eccezionale e, data la prossimità, anche l’occasione per pensare a una missione spaziale ad hoc. Se ne è discusso nei giorni scorsi al centro Estec dell'Esa a Noordwijk, in Olanda in un meeting durante il quale compagnie private e agenzie spaziali hanno presentato progetti e concept per una missione spaziale diretta a studiare Apophis. Blue Origin, la compagnia di Jeff Bezos, propone di inviare Blue ring, sonda ancora in fase di sviluppo, che può ospitare fino a due tonnellate di payload. Significa che può trasportare strumenti scientifici ma anche sonde diverse da rilasciare i prossimità dell’obiettivo.
Al meeting c’era anche la Nasa che sta lavorando con la compagnia commerciale Exploration Labs per un’altra missione: Droid (Distributed radar observations of interior distributions) con lo scopo di lanciare cubesat che possano mappare Apophis anche nella sua struttura interna usando strumenti radar. La Nasa, attraverso il Caltech, che gestisce per l’Agenzia spaziale il Jet propulsion laboratory, cercherà fondi privati per finanziare la missione che avrà anche lo scopo di aprire la strada allo sfruttamento di risorse extra-atmosferiche. Uno degli obiettivi di ExLabs è proprio lo space mining: approdare sugli asteroidi in futuro per estrarre minerali e risorse rare e portarli sulla Terra. Un’altra idea è quella di usare una missione Nasa per ora rimasta in ghiacciaia: Janus, due sonde destinate a visitare due coppie asteroidi binari. Sospesa a causa dei ritardi della missione con la quale sarebbe dovuta decollare: Psyche, anch’essa diretta verso un asteroide.
L’Agenzia spaziale europea (Esa), ha invece presentato due concept. Uno che prevede un cubesat, Satis, su piattaforma Mar-Go sviluppata dalla startup danese GomSpace assieme al Politecnico di Milano. Un’altra, molto più impegnativa, è Rapid Apophis mission for space safety (Ramses) per inviare una grande sonda simile a una già esistente, Hera, che decollerà a ottobre diretta verso l’asteroide colpito dalla missione Nasa Dart nel 2022. Stando ai resoconti del meeting di Noordwijk, la difficoltà nel finanziare i progetti è un minimo comun denominatore unisce le diverse proposte, anche se si tratta di grandi compagnie e agenzie spaziali come Esa e Nasa. Tanto da auspicare che si uniscano le forze per una missione congiunta.
Non se ma quando: la difesa planetaria
Anche rifuggendo dal catastrofismo, è uno dei mantra degli scienziati. Statisticamente è inevitabile che la Terra venga colpita da un corpo celeste abbastanza massiccio da provocare una catastrofe, locale, regionale, continentale o planetaria. Ma per la prima volta nella storia l’umanità ha i mezzi per poterlo prevedere e fare qualcosa per evitarlo ed è per questo che c’è grande attenzione per il tema. Hera è parte di questo piano iniziato con Dart. Double asteroid redirection test è stata la prima missione di “difesa planetaria”, progettata e portata a termine con successo dalla Nasa.
Decollata nel 2021, Dart ha raggiunto il doppio asteroide Didymos e, proprio come un dardo, ha colpito il suo satellite, Dimorphos, con l’obiettivo di deviarne l’orbita in maniera misurabile. In quell’occasione la piccola sonda Liciacube, fornita dall’Agenzia spaziale italiana e costruita a Torino da Argotec, agì da testimone oculare riprendendo da vicino l’impatto. È stato un evento storico perché per la prima volta l’uomo ha deviato in maniera misurabile l’orbita di un altro corpo celeste.
A ottobre Hera si involerà verso Didymos per studiare le conseguenze dell’impatto di Dart su Dimorphos. Con un set di strumenti analizzerà la forma e la profondità del cratere, la composizione interna dell’asteroide e la sua orbita così come è mutata. Hera stessa entrerà in orbita attorno a Didymos, i suoi grandi pannelli solari costruiti da Leonardo a Nerviano, le permetteranno di funzionare anche nel punto più lontano dal Sole, quando potrà raccogliere solamente il 17 per cento della luce rispetto a un satellite in orbita terrestre.
Scenari come quello di Armageddon, molto difficilmente si avvereranno mai. Un asteroide addirittura delle dimensioni del Texas probabilmente sarebbe stato già scoperto. Più accurato è invece Don’t look up, nel quale viene scoperta una cometa. Le comete arrivano dal Sistema solare esterno, per lo più dalla fascia di Kuiper, oltre l’orbita di Nettuno, con periodi orbitali di alcune decine di anni (come la cometa di Halley) o dalla lontanissima nube di Oort, con periodi di centinaia o migliaia di anni. In questo caso le incertezze aumentano: una cometa transitata l’ultima volta quando ancora eravamo una scarsa popolazione di cacciatori-raccoglitori, senza capacità culturali e tecniche per registrarla, potrebbe spuntare dai recessi del Cosmo e minacciarci con un preavviso di pochi mesi. Che sia un asteroide o una cometa, avere la capacità di deviarne il percorso nel caso di minaccia sarà essenziale. Come amano dire gli scienziati e gli ingegneri che lavorano alla difesa planetaria: “I dinosauri non avevano un’agenzia spaziale”.
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